Non avrebbe dovuto piovere quel giorno, era di primavera, anzi di maggio e come sempre in questa stagione il sole fa già da padrone per annunciare la vicina estate, ma le nuvole nere, nel primo mattino, presagivano il maltempo, quasi che pure il cielo fosse a conoscenza di quello che accadeva sotto.
Non avrebbe dovuto piovere, ma quella mattina la pioggia era incessante, e Michele, un bambino di circa 6 anni, si stava preparando per un lungo viaggio, o così a lui pareva, tanto lo sentiva forte e importante e al tempo stesso gli procurava quello, ancora, sconosciuto torpore dentro che l'avrebbe per sempre accompagnato nel tempo, e che si chiama, dolore.
Era nato, o così fino ad allora credeva, in una casa di campagna, al limite della grande città, l'ultima e dopo il nulla, terreni e prati immensi e a contornare un fiume che li attraversava. Era vissuto con la conoscenza delle mietiture, delle coltivazioni e delle scorribande tra boschi e fiori, tra giochi infantili all'aperto sulle aie delle corti, dentro i fienili pieni e tra le bestie, come le chiamava suo nonno, o come lui credeva che lo fosse.
Non avrebbe dovuto piovere, almeno per non rimarcare la tristezza di quel giorno, avrebbe voluto che ci fosse il sole, per ricordarsi tutto ancora bello e come lo aveva sempre vissuto dentro il cuore, ma la vestizione, calma e doviziosa, come un cardinale prima di una solenne funzione, andava lenta e più gli batteva il cuore. Non aveva mai indossato abiti così perfetti, solitamente erano un paio di pantaloni a gamba corta, spesso sgualciti e incolori, una maglietta a maniche corte, se faceva caldo, o una a maniche lunghe nelle fredde giornate, un paio di sandali ormai corrosi dal tempo e dalle intemperie da non conoscere più il colore del cuoio e della pelle, a piedi nudi e se era inverno con le calze di lana, ma sempre con la stessa calzatura.
Una camicia bianca, ben profumata e stirata, come non ne aveva mai viste e conosciute, un paio di pantaloni a gamba lunga che gli davano impressione e scapre lucide, chiuse, con i lacci a chiudere ermeticamente, e poi un giaccone nero, leggero ma pesante nel non colore e nella sostanza del vedere, e un fiocchetto al limite del collo, rosso, come rossa era la rabbia, che non conosceva come tale, ma che insorgeva dentro senza la forza di poterla estraniare.
Non avrebbe dovuto piovere, perchè le lacrime, come quella pioggia che ancora non cedeva al sole, si accumulavano dentro un piccolo cuore, si trovavano spazio sempre più ingombrante, quasi da scoppiare, ma erano tenute salde e mai sarebbero potute scendere oltre, perchè quegli occhi avevano da guardare, da scrutare, per poter capire, o se non altro poter avere un piccolo sprazzo di quello che stava succedendo.
“Michele da oggi ritorni dal tuo vero padre e dalla nuova madre, io ti sarò sempre vicina, ora è giunto il tempo che ritorni da dove sei stato portato” e il cielo fece luce, luce di un forte lampo e un tuono burrascoso tremò la stanza e lo colpì nel cuore, ma più forte fu il lampo e tuono che colei che credeva madre, madre di sempre, improvvisamente, come un porcellino da mangiare, lo poneva ben curato su un vassoio, che era un treno e gli diceva “ t'amo ma non posso” e poi spariva.
Non avrebbe dovuto piovere, ma pioveva e dall'ultimo vagone, lui guardava quelle rotaie che non avevano fine, quel lungo viaggio che lo avrebbe aspettato e con il tormento del nuovo che avrebbe dovuto sopportare, e il pensiero di un abbandono o di un normale vivere del mondo, che ancora aveva da sapere. E il treno correva veloce nel distacco e Michele lo sentiva lento nel lenire di quel dolore, sapersi solo improvvisamente e sapersi che c'erano persone che ti dicevano ti voglio bene e non te lo potevano dimostrare, intanto pensava che non avrebbe dovuto piovere quella mattina, perchè sapeva già d'allora che il senso di bagnato se lo sarebbe sempre portato addosso.
Non avrebbe dovuto piovere, e non ha mai smesso.
Non avrebbe dovuto piovere, ma quella mattina la pioggia era incessante, e Michele, un bambino di circa 6 anni, si stava preparando per un lungo viaggio, o così a lui pareva, tanto lo sentiva forte e importante e al tempo stesso gli procurava quello, ancora, sconosciuto torpore dentro che l'avrebbe per sempre accompagnato nel tempo, e che si chiama, dolore.
Era nato, o così fino ad allora credeva, in una casa di campagna, al limite della grande città, l'ultima e dopo il nulla, terreni e prati immensi e a contornare un fiume che li attraversava. Era vissuto con la conoscenza delle mietiture, delle coltivazioni e delle scorribande tra boschi e fiori, tra giochi infantili all'aperto sulle aie delle corti, dentro i fienili pieni e tra le bestie, come le chiamava suo nonno, o come lui credeva che lo fosse.
Non avrebbe dovuto piovere, almeno per non rimarcare la tristezza di quel giorno, avrebbe voluto che ci fosse il sole, per ricordarsi tutto ancora bello e come lo aveva sempre vissuto dentro il cuore, ma la vestizione, calma e doviziosa, come un cardinale prima di una solenne funzione, andava lenta e più gli batteva il cuore. Non aveva mai indossato abiti così perfetti, solitamente erano un paio di pantaloni a gamba corta, spesso sgualciti e incolori, una maglietta a maniche corte, se faceva caldo, o una a maniche lunghe nelle fredde giornate, un paio di sandali ormai corrosi dal tempo e dalle intemperie da non conoscere più il colore del cuoio e della pelle, a piedi nudi e se era inverno con le calze di lana, ma sempre con la stessa calzatura.
Una camicia bianca, ben profumata e stirata, come non ne aveva mai viste e conosciute, un paio di pantaloni a gamba lunga che gli davano impressione e scapre lucide, chiuse, con i lacci a chiudere ermeticamente, e poi un giaccone nero, leggero ma pesante nel non colore e nella sostanza del vedere, e un fiocchetto al limite del collo, rosso, come rossa era la rabbia, che non conosceva come tale, ma che insorgeva dentro senza la forza di poterla estraniare.
Non avrebbe dovuto piovere, perchè le lacrime, come quella pioggia che ancora non cedeva al sole, si accumulavano dentro un piccolo cuore, si trovavano spazio sempre più ingombrante, quasi da scoppiare, ma erano tenute salde e mai sarebbero potute scendere oltre, perchè quegli occhi avevano da guardare, da scrutare, per poter capire, o se non altro poter avere un piccolo sprazzo di quello che stava succedendo.
“Michele da oggi ritorni dal tuo vero padre e dalla nuova madre, io ti sarò sempre vicina, ora è giunto il tempo che ritorni da dove sei stato portato” e il cielo fece luce, luce di un forte lampo e un tuono burrascoso tremò la stanza e lo colpì nel cuore, ma più forte fu il lampo e tuono che colei che credeva madre, madre di sempre, improvvisamente, come un porcellino da mangiare, lo poneva ben curato su un vassoio, che era un treno e gli diceva “ t'amo ma non posso” e poi spariva.
Non avrebbe dovuto piovere, ma pioveva e dall'ultimo vagone, lui guardava quelle rotaie che non avevano fine, quel lungo viaggio che lo avrebbe aspettato e con il tormento del nuovo che avrebbe dovuto sopportare, e il pensiero di un abbandono o di un normale vivere del mondo, che ancora aveva da sapere. E il treno correva veloce nel distacco e Michele lo sentiva lento nel lenire di quel dolore, sapersi solo improvvisamente e sapersi che c'erano persone che ti dicevano ti voglio bene e non te lo potevano dimostrare, intanto pensava che non avrebbe dovuto piovere quella mattina, perchè sapeva già d'allora che il senso di bagnato se lo sarebbe sempre portato addosso.
Non avrebbe dovuto piovere, e non ha mai smesso.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Elliott Erwitt - New York
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