lunedì 5 agosto 2019

ANTONIO E IL CORVO

Era salito sopra un filo della luce, solo perchè lo aveva visto fare, tante volte, al suo corvo migliore, quel nero volatile che abitava ormai da anni nel suo giardino, e del quale accudiva e pure gli puliva il luogo dove spesso si soffermava a mangiare. 
Alberto era un giovanotto, di media statura, non propriamente bello, ma non si poteva definire, perchè poi del bello non tutti hanno la stessa opinione, comunque un ragazzotto robusto, non propriamente grasso, dalla pelle bianca e da un neo sulla guancia destra, che forse lo faceva apparire un poco diverso, anche se nei suoi modi di fare e di pensare era molto originale.
Viveva con sua madre, una donna ormai ceduta alla salute e alla vecchiaia, che stava sempre seduta su una vecchia poltrona in vimini rivestita da una tappezzeria colorata a fiori enormi, che del colore ormai erano rimaste solo ombre, e si spostava solo per andare a letto, quando Antonio con la sua magistrale forza, la prendeva sulle sue braccia e la poneva delicatamente sul materasso. Era stata una donna di un coraggio unico e dalla volontà sovrumana, aveva allevato quel ragazzo “diverso” come lei lo chiamava, con tutta la speranza che un giorno sarebbe cambiato o se non altro avesse trovato un qualcuno che lo comprendesse, perchè lei era cosciente che non si può essere eterni e per sempre , e un domani, ora prossimo se lo sentiva, lei se ne sarebbe andata e il dolore più grosso della sua vita, sarebbe il doverlo lasciare solo. 
Alberto non era “diverso” era speciale, così diceva il suo amico di scuola, Massimo, che dal tempo delle elementari non lo aveva più abbandonato, spesso lo veniva a trovare, anche ora che era sposato e aveva avuto pure un figlio d'accudire, e proprio di quel figlio, Antonio era stato il padrino, quella mattina di un primo agosto, nella piccola chiesa del paese, dove il giovane prete eseguiva il battesimo e l'imposizione del nome, che Antonio vestito a festa, con la cravatta e il cilindro nero in testa, teneva sulle braccia quel corpicino addormentato, che al primo bagnare sulla fronte si fece sentire, e Antonio si sentì disperato quasi colpevole lui di averlo svegliato.
Sua madre avrebbe voluto che studiasse, che in fondo a scuola, così gli insegnanti gli dicevano, si applicava e pure dava buoni profitti, ma lui non ne volle sapere e dopo le classi obbligate, si cercò da lavorare, Antonio amava i motori, il loro rumore e il loro fantastico modo di poter far camminare, e riuscì a farsi ben volere dal meccanico del paese, un uomo solo, con tanto lavoro e olio addosso e pochi pensieri sulla testa, al di la di quello da farsi da mangiare.
La contentezza di quel ragazzo quando seppe che il Giuvà, il meccanico, lo aveva preso in prova per tre mesi, era incontinente, tutto il paese in un attimo ne era a conoscenza, Antonio lo urlò, con un sorriso geniale sulla bocca e con gli occhi umidi dall'emozione forte, a tutte le porte e a tutte le persone che trovava...”Ho un lavoro, sarò meccanico” e tutti non si facevano meraviglia di quell'atteggiamento, conoscevano il “diverso” , “il matto”, il “ non normale”, così era risaputo Antonio tra le persone. Anzi se ne meravigliarono ma poi, appreso che andava dal Giuvà non si ricredettero di molto, del resto anche il meccanico, laggiù al fondo del viale, mica era poi tanto per la quale, almeno una cosa lui l'aveva bene nella testa, lavorare.
La madre non era poi tanto soddisfatta, e la prima mattina fece finta di scordarsi di andarlo a chiamare, e quando il ragazzo di soprassalto vide che ore erano e che era già in forte ritardo, svelto si rivestì, entrò nella cucina e senza prendere il caffè, che sua madre comunque gli aveva preparato, diede uno sguardo cattivo e in cagnesco se ne uscì violento, lasciandola in piedi vicina al rubinetto del lavello, che nella sorpresa, aveva lasciato aperto, e continuava a scendere acqua fino a travasare.
E i giorni passavano e il lavoro andava per la quale, lei rimaneva di nuovo sola in quella casa senza più un interesse, lavava, stirava, faceva da mangiare e qualche volta andava dalla vicina, anziana più di lei, a farle delle pulizie per quel poco che “poverina” sporcava. Due fiori nel giardino, qualche tentativo di prodotti ortivi, e poi i panni e le stirature, e la sera preparare cena che Antonio quando viene ha fame, e non vuole discussioni. Poi aiutata da lui a fare le faccende, riporre stoviglie e tovaglie e un poco di televisione mentre con i ferri lei si divertiva a fare maglioni e maglie per l'inverno, che come sempre aveva da venire. Antonio si ritirava nella sua piccola camera, si stendeva sul letto, aggiustava il guanciale e poi si abbandonava alla lettura di un qualsiasi libro, amava leggere e sapere e quello era il suo secondo amore, dopo i motori.
Ogni sabato pomeriggio, che era libero dal lavoro, ora che aveva anche qualche spicciolo in più da poter usare, si recava alla città vicina, prendeva la corriera, quella dell'ora prima della mattina e con il biglietto in mano, per far vedere al guidatore, che lui aveva pagato, si sedeva al primo posto, quello davanti, perchè a lui piaceva vedere le cose, le persone, e la natura che gli sarebbe passata davanti. Arrivava che già il mercato sulla piazza era iniziato,si intrufulova come un cagnolino tra le persone intente a vendere e comprare, si divertiva a vedere di come le persone avessero mille atteggiamenti a seconda della loro situazione, un venditore di frutta che gridava “Tutta roba fresca”, mentre il pesciaio, puzzolente di mare e di marciume, gridava...”Pesce, pesce azzurro, pesce da mangiare”. Poi c'era il suo amico Franco, un uomo dai capelli bianchi, anziano più di sua madre, che era stato un venditore nel passato, ma ora avendo poco di pensione, si arrangiava a fare le bolle grandi, con due canne e una corda da tuffare in un secchiello, ricolmo d'acqua e di sapone. Antonio si fermava come i bambini a guardare quelle meraviglie che salivano nel cielo e diventava triste quando svanivano per l'effetto consumato del sapone. Con Franco spesso andavano al bar vicino alla piazza, a prendersi un “bicchierino” inteso come un bicchiere colmo di vino bianco, se faceva caldo, o rosso, nelle giornate fredde dell'inverno, e come sempre, pagava Antonio, e era proprio felice per questo, si sentiva importante e il Franco, che lo comprendeva, lo lasciava fare.
Ma era venuto in città per andare alla libreria, era la che finiva la sua mattinata, tra gli scaffali e i tavoli ricolmi di carta stampata, ogni copertina era per lui un sogno, ogni titolo lo incantava e si immaginava pure di esserne il protagonista, di navigare per i lontani mari, sorvolare le montagne e arrivare fino al cielo, e si divertiva a leggerne una piccola parte, una pagina, un trafiletto e sempre ne usciva con qualcuno sotto il braccio, sicuro che presto li avrebbe letti.
Da alcuni anni in quel giardino era venuto ad abitare, per suo diletto, un corvo dal becco giallo e nero come il carbone, sua madre non lo detestava, ma Antonio piano piano e con molto affetto se lo fece amico e ogni giorno gli lasciava, in un angolo del piccolo giardino, in un sotto vaso in coccio rosso, un qualche cosa da mangiare, cominciando con molliche di pane per essere arrivato perfino a pezzetti di pollo e di coniglio arrosto, che riusciva a levarsi, di nascosto, dal piatto, altrimenti sua madre, nonostante fosse ormai adulto, trovava sempre da brontolare.
Quel corvo, a poco a poco, per rendergli il favore e l'interessamento, cominciò a seguire Antonio in ogni dove, in principio sorvolandogli sopra senza farsi notare, poi piano piano si avvicinò al punto che ogni volta che lui andava a lavorare, portava il corvo, che si posava sulle sue spalle e poi arrivato dal meccanico, lo lasciava libero di andare, che tanto poi, la sera, prima di chiudere e uscire, si sarebbe fatto vivo senza nemmeno che si facesse aspettare. 
E nel paese si cominciava a chiacchierare sempre più forte, che quell'Antonio era da curare, che poteva essere pericoloso e che si tenesse a bada i bambini altrimenti chissà, lui, “il matto”, cosa gli avrebbe fatto fare o inventare.
Un giorno, mentre china sopra il piccolo orto, coglieva quelle poche zucchine mature che la terra gli aveva donato, sua madre venne colta da un brutto male, un grido e poi cadde a terra come una zucca marcia, e furono le vicine ad accorrere e a urlare soccorso.
Fu un incaricato della pubblica assistenza che avvisò Antonio della brutta cosa, lui andò di corsa all'ospedale e si rese conto che sua madre non era più la stessa, la testa era partita e pure il movimento se n'era definitivamente andato. 
Lasciò il lavoro, per accudirla e esserle vicino, viveva con il poco che aveva messo da parte e con la piccola e misera pensione di lei, che tanto aveva lavorato e poi per niente, e la mattina la metteva sulla sedia e la sera la riprendeva e la deponeva a letto, preparava mangiare per se e per il corvo che gli era sempre appresso e che, forse, aveva inteso anche lui la situazione, che da quel giorno non si mosse più da quel giardino, l'unica uscita che faceva era il posarsi sopra un filo della luce, che passava di sopra alla casa e dal quale poteva controllare il suo padrone.
Passò un inverno e non si fece in tempo a veder l'estate che sua madre lasciò questo mondo con la serenità nel corpo, forse, non certo nella mente, e Antonio dopo il funerale, entrando nella casa, vuota, con la sedia in vimini dal rivestimento a fiori ormai svaniti, dalle stanze buie e grigie, dagli ormai svaniti profumi, salì in un attimo sul filo della luce in bilico nel tempo e nel vuoto del momento, con appresso il suo corvo fedele e con un giornale da leggere per tenere la mente in movimento. 
Aveva portato con se anche un ombrello, pensando “ Se poi dovesse piovere sappiamo come ripararci, perchè io non scendo, il mondo è bello di quassù, dove lo posso guardare, e dove nessuno può venirmi a cercare per disturbarmi dal mio “diverso” pensare”.


Roberto Busembai (errebi)

Immagine web

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